«Solo in provincia si coltivano le grandi malinconie, il silenzio e la solitudine indispensabili per riuscire in uno sport così faticoso come il ciclismo», diceva Gianni Brera. Siamo però certi che se il Maestro Brera fosse vivo ancora oggi, guardando i 140 ciclisti top level pedalare nelle polverose strade del deserto degli Emirati Arabi Uniti, avrebbe in parte rivista questa sua affermazione.
Perché i ciclisti – soprattutto quelli di un tempo – è vero che nascevano nelle province ed è vero che hanno imparato ad andare veloci in salita perché probabilmente dall’altra parte, sulla discesa, nella valle, nel paese vicino, c’era la vita. Un bar, forse un cinema, magari una balera o una trattoria. O forse c’erano tutte queste cose messe insieme ed ecco che una domenica pomeriggio diventava il momento più atteso della settimana, sì – inutile chiederselo – più atteso pure della messa.
È però altrettanto vero che più solitario e malinconico di un deserto c’è davvero poco. Un deserto può farti capire chi sei, può ridisegnare le tue ambizioni e le tue percezioni verso te stesso e verso il mondo che ti circonda. Pedalare con il sole perpendicolare sopra la tua testa è qualcosa che va oltre, trascende ogni normale umana concezione della fatica. Ridefinisce il concetto di sforzo e sacrificio, di gioco di squadra e di obiettivo.
Quella percorre il deserto è una strada lunga cinque anni, che ha attraversato il Dubai Tour e l’Abu Dhabi Tour per arrivare oggi a essere l’UAE Tour, ovvero il tour combinato degli Emirati Arabi Uniti che si è svolto dal 24 febbraio al 2 marzo in sette tappe, oltre mille chilometri e racchiudendo tappe per velocisti, passisti e scalatori che si sono dati battaglia salendo e scendendo su un dislivello complessivo di 4.500 metri.
L’UAE Tour è importante per il ciclismo mondiale per un sostanziale motivo: rappresenta geograficamente e temporalmente il riavvicinarsi della primavera del ciclismo. La stagione del risveglio. L’arrivo delle classiche del Nord, delle Strade bianche toscane e della Tirreno-Adriatico, ad esempio. L’UAE Tour è il granello di polvere che soffiamo via dai dentini dei rapporti quando, dopo un lungo inverno, sempre troppo lungo, rimettiamo le ruote a terra e ci ricordiamo che in fondo non ce l’eravamo mai scordato, come si pedala.
L’UAE Tour è questo. Uno spettacolo con i migliori che si iniziano a studiare e a misurare, che provano a capire che stagione sarà. «Tizio non pedala fluido, sta preparando un picco di forma tardivo… punterà al Tour?», penserà qualcuno. «Caio pedala già bene, vedrai che andrà forte al Fiandre», penserà qualcun altro. E poi lì, in mezzo, ci siamo noi che ci limitiamo a osservare – eccitati come dei bambini davanti al loro gioco preferito – il gruppo compatto e colorato. Piccoli puntini cromatici che si muovono a sessanta all’ora in mezzo al nulla del deserto. Un nulla che in realtà rappresenta, per la stagione, praticamente tutto. Perché è l’inizio. L’atomo, la particella di Dio, il Big Bang emozionale da cui parte la stagione ciclistica 2019. Da cui iniziano i sogni, le sfide, le cadute, le bestemmie, le salite e le attese. «Tra poco passa il giro, tra poco arriva il gruppo, quant’è il distacco? Ecco i primi fuggitivi», saranno le frasi più dette.
Il ciclismo è una festa. Il ciclismo è la vita che passa sotto i nostri occhi. Entra nelle nostre case attraverso la televisione, ma poi ci passa anche sotto le finestre. Perché non siamo noi a dover andare da lui, dobbiamo solo sederci sul ciglio della strada e aspettare che faccia tutto da solo. Che ci cerchi, ci trovi e con il suo meccanico e inconfondibile rumore di ingranaggi ci svegli e dica: «È ora, tu che aspetti?».